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lunedì 4 novembre 2013

giornimesiannimillenni

Non erano molte le costanti, qualcuna ambientale - cielo terso, aria secca, sole alto. La dorsale appenninica a circondarmi - e poche altre - endogene - a combinare quei colori nel riflesso impresso dietro gli sugardi spaventati, nel tremore della prospettiva che si faceva ogni giorno più corta, nella rassicurante certezza che qualcosa finiva. Lasciarsi scivolare addosso eventi e momenti, assorbire i silenzi, capitalizzare i trascorsi e catalizzare la sintesi in un'altra direzione, allora ignota ma pressante, tracciata senza nome o aggettivi, era una di quelle operazioni complesse che - nel migliore dei casi - codifichi a posteriori come slittamento di conseguenze alla base di un'interpretazione che si è messa in piedi da sola, in quanto nata e cresciuta in ginocchio alle dipendenze di chi ne ignorava la presenza e ne scongiurava l'esistenza. Nel migliore dei casi. S'è verificato il peggiore.

Diverse centinaia di volte gli emisferi hanno chiuso il giro su se stessi. Anni. Sono passati anni. Un'infinità di intramontabili secondi a scavare quanto non era roccia già in partenza. Anni. Mi sono deteriorato nell'inerte quotidiana presa d'atto che nulla è cambiato se non in peggio. E nemmeno la soddisfazione di potermi definire io, peggiore: la mediocre staticità di una muta regressione verso un'inossidabile chiusura in un me stesso sempre più povero e spento è la fotografia dell'insostenibile scorrere dei troppi giorni troppo lunghi di cui più per disperazione che per analisi prendo atto.

Ho imparato che non esiste un punto di rottura. Esiste, forse, la speranza di non accorgersi di averlo oltrepassato.Ma non si supera un punto assente dal tracciato, non si scavalca un limite perennemente un passo oltre e quella rottura finisce per diluirsi tanto in piccole costanti gocce di veleno al quale a lungo andare si diventa immuni. La resistenza umana supera l'immaginario, il temporaneo - ancorché in tensione - si fa permanente e l'armatura prende il posto del corpo.

Sapessi quanto m'è costato chiudere fuori il mondo, strappare l'ultima radice, fare tabula rasa per poi non voltarmi altrove, per guardarmi attorno attonito e solo e ridotto a minimo termine numero primo perché è facile, distruggere. Troppo facile quando hai alternative in tasca. E' quando non ne hai che t'accorgi quanto la distruzione sia diventata essa stessa l'alternativa. E' quando non hai più altro da distruggere che l'orologio si rompe.

Sapessi dare un perché al trascinarsi ignobile di questa rovina senza fine non sarei qui. Non sarei qui nemmeno se evitassi di chiedermelo. Il fatto è che da qui non esco, ho preso già a testate ogni muro senza trovare la porta. Mi sono anche illuso che recuperare il momento in cui qui mi sono imprigionato, per poterlo maledire ogni istante dell'infinito rimanente che m'asfissia, in qualche modo distraesse. Illuso, appunto. Ogni termine è scaduto, ogni tempo eroso dall'interno, scomparso. Un'atmosfera di sospensione senza ossigeno è l'eternità di quella che sembrava una situazione transitoria solo a occhi che sapevano definire un futuro. I miei non hanno visto che la caducità del momento trascorso, per consegnarlo all'oblio come non fosse sopravvissuto.

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